domenica 7 ottobre 2007

FANCULOCULTURA







Schiaffi
Oltraggi
Sberleffi


FANNOCULTURA

Venerdì 13 giugno ore 10.00 - incontro
Palazzo del Turismo

Al margine
Motus, Sealinelab, Zonemoda
I territori al margine (Gilles Clément), i non-luoghi (Marc Augè),
il junkspace (Rem Koolhaas), gli ipermercati del “Regno a venire”
(James Graham Ballard), la Riviera Metropolitana:
intervengono Mario Lupano, Presidente del corso di
Laurea specialistica in Sistemi e comunicazione della moda (Università di Bologna), Luca Emanueli, direttore di Sealinelab, Enrico Casagrande,
regista e fondatore di Motus.






http://www.santamariadellascala.com
Con l’occasione del trasferimento delle attività del Centro Arte Contemporanea di Siena dal Palazzo delle Papesse al polo museale di Santa Maria della Scala siamo lieti di annunciare la retrospettiva dell’opera di Gordon Matta-Clark, a cura di Lorenzo Fusi e Marco Pierini in collaborazione con l’Estate




Riccione 01_06_08


UMANO TROPPO UMANO

Umano troppo umano

a cura di Elio Grazioli

Umano troppo umano è il titolo e tema chiave di questa terza edizione di Fotografia Europea, dedicata al controverso concetto di corpo indagato nelle sue molteplici e a volte radicalmente opposte accezioni. Dal corpo “esibito”, trasformato dal rinnovato culto della forma fisica e del bel vivere in strumento malleabile di piacere e performance; al corpo post-tecnologico, che fa i conti con i nuovi media, la virtualità e l’interconnessione. Dal corpo tormentato e consunto, straziato ai limiti del tollerabile da nuove guerre, nuove armi, nuove malattie, nuove miserie; al corpo inerte, sezionato, oggetto della ricerca scientifica che lo analizza e lo studia con distacco oggettivo. Per arrivare al corpo stesso dell’immagine fotografica, un corpo che negli anni si è evoluto e modificato quanto quello umano, facendo proprie nuove tecniche, nuovi materiali, nuovi supporti, fino all’apparente immaterialità della digitalizzazione.



IN OUR WORLD
NEW PHOTOGRAPHY IN BRITAIN

Organizzata e prodotta dalla Galleria Civica di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena la rassegna collettiva è stata realizzata in collaborazione con il Royal College of Art di Londra e presenta le ricerche di 18 artisti che nel corso dell'ultimo decennio hanno frequentato il Master di Fotografia presso la prestigiosa istituzione inglese, che sembra avere preso il posto di altre (Goldsmiths University, Saint Martin College ecc.) come luogo per eccellenza della formazione in Europa riguardo alla fotografia e all'arte visiva in genere.

Gli artisti presenti in mostra arrivano da varie parti del mondo, proprio per l'eccellenza della scuola, e sono stati selezionati dal curatore che per questo progetto ha ricevuto dall'RCA una visiting fellowship come ricercatore per un anno.
Si tratta di: Becky Beasley (1975, Gran Bretagna), Bianca Brunner (1974, Chur, Svizzera), Lisa Castagner (1975, Irlanda del Nord), Simon Cunningham, Annabel Elgar (1971, Aldershot, Gran Bretagna), Anne Hardy (1970, Londra), Lucy Levene (1978, Londra), Gareth McConnell (1972, Irlanda del Nord), Brígida Mendes (1977, Tomar, Portogallo), Suzanne Mooney (1976, Irlanda), Melissa Moore (1978, Nottingham), Harold Offeh (1977, Accra, Ghana), Kirk Palmer (1971, Northampton, Gran Bretagna), Sarah Pickering (1972, Durham City, Gran Bretagna), Sophy Rickett (1970, Londra), Esther Teichmann (1980, Karlsruhe, Germania), Heiko Tiemann (1968, Bad Oeynhausen, Germania), Danny Treacy (1975, Manchester).

In mostra fotografie, video e film: una pluralità di mezzi espressivi e un numero di opere sufficiente a far comprendere il singolo percorso di ogni artista. Molti di loro hanno già esposto in gallerie inglesi ed internazionali: a Londra Maureen Paley, National Portrait Gallery, Whitechapel e Tate Modern, fra le altre; in Europa, solo per citarne alcune, la Fundação Colouste Gulbenkian di Lisbona, Musée de l'Elisée di Losanna, Fotomuseum Winterthur, Centre Pompidou, Parigi; in Italia, Nepente Gallery di Milano, Galleria Alberto Peola di Torino e Biennale di Venezia.

Allestita a Palazzo Santa Margherita, in corso Canalgrande 103 a Modena fino al prossimo 13 luglio, la rassegna è accompagnata da un esaustivo volume edito da Skira, primo di una nuova collana dedicata all'indagine dei talenti emergenti nei singoli Paesi europei ed extraeuropei. Il catalogo presenta una ricca selezione di immagini per ogni autore, completata da uno statement sul suo lavoro e da una biobibliografia completa.
In Our World offre una visione attuale ed estremamente contemporanea della ricerca fotografica in Inghilterra. La presenza di autori provenienti da diverse nazioni (Germania, Portogallo, Stati Uniti, Svizzera, Irlanda ecc.) ma da tempo residenti a Londra, conferma il ruolo primario oggi rappresentato nell'arte contemporanea dalla capitale del Regno Unito, e, in particolare, dal Royal College of Art, divenuto, come si diceva, un nuovo punto di riferimento.
Anche se non si può definire con precisione una corrente o una tendenza dominante che caratterizzi il percorso espositivo, tutti gli autori presenti in mostra hanno in comune una forte condivisione con il mondo che li circonda. Non limitandosi a rappresentarlo essi, in un certo senso, fanno da filtro, per darne una nuova e personale interpretazione, trasformando, inventando, assemblando pezzi di realtà tangibile, altre volte raccontando in prima persona (in alcuni casi proponendosi direttamente come protagonisti dell'opera) il proprio rapporto con la vita e la società. Pur trattandosi di esperienze personali, in alcuni casi molto differenti l'una dall'altra, si avverte una malinconia comune, un sentimento del tempo presente vissuto fino in fondo, lucidamente affrontato e ricomposto attraverso le immagini. Altra caratteristica comune a molti di loro è la ricostruzione di precise situazioni ove l'atto fotografico delimita e riconsidera una nuova realtà nelle sue proporzioni, relazioni interne, significati multipli che la lettura del fotografo ha voluto dare attraverso uno sguardo regionato e selettivo.
Così appare infatti nel lavoro della Mooney, teso alla riconsiderazione del modus vivendi con cui siamo abituati a vedere il mondo; la Rickett sembra andare oltre, tentando di svelare ciò che non è immadiatamente visibile nel suo film Auditorium; si muove sul sottile limite fra il reale e l'immaginario la ricerca della Pickering; diviene una metamorfosi la figura umana che si plasma con lo spazio nel lavoro della Moore; figura umana che è in movimento e dialoga con se stessa e con lo spazio nel lavori di Cunningham; un dichiarato atto di non-conformismo sono invece le immagini di coppia della Levene; diventano un manifesto contro il glamour patinato e la falsa femminilità le immagini della Castagner. Il luogo e la sua storia, la sua identità culturale e antropologica sono l'oggetto d'indagine esplorato da Palmer nei suoi delicati video; e ancora le origini e le radici culturali sono alla base del ragionamento su cui posa il lavoro della Mendes, in immagini costruite tra fiction e realtà; un modulo di osservazione e decodificazione del mondo è la fotografia per Tiemann, basato sull'esperienza e sull'attesa; mentre uno strumento per indurre la comunicazione fra culture diverse, sovente partecipando con i personaggi dei suoi video, sono le opere di Offeh; le immagini si fanno poema visivo nello slide show di McConnell, una lunga storia personale vissuta dall'interno; così come personalissimi e intimi sono i rapporti, o meglio i sentimenti, manifestati nelle fotografie della Teichmann. Allucinanti, inquietanti sono le invenzioni che assumono sembianze umane create da Treacy; un mondo immaginario che muove pure la ricerca della Brunner dove sono gli oggetti a trasformarsi e cambiare forma; così come il rapporto fra gli oggetti e la loro rappresentazione fotografica sta alla base della ricerca della Beasley; simile riflessione sull'utilizzo della fotografia, ma come strumento creativo e induttivo di nuove percezioni, porta la Hardy a costruire ambienti ricchi di dettagli e particolari, dove l'uomo è assente; assenza che diventa vulnerabilità nei personaggi e nelle immagini della Elgar, dove i dettagli sono in realtà simboli che ci permettono di entrare nell'opera.




Mario, il mio Tributo ai tuoi Valori è FUORI ORARIO. Come piace a te. Sia pure modesta, la prova d'amicizia è sincera ed onesta.

Macerata, Sei Maggio 2008

Lorenzo Amaduzzi



Mario Dondero creò l'icona del Nouveau Roma con Robbe-Grillet e Beckett.

L' appuntamento era al Giamaica, nel cuore di Brera. Che Mario Dondero potesse anche non arrivare, era nel conto. D' altronde, Dondero che proprio domani compie ottant' anni (e in quel giorno l' accademia di Belle Arti di Macerata gli conferirà il titolo di accademico Honoris causa con l' apertura di una sua grande retrospettiva) non solo è noto per essere uno dei più grandi fotografi italiani, raffinato intellettuale, incredibile incantatore di umanità, (riconosciuto il fascino esercitato sulle donne), ma è celebre tra gli amici soprattutto per la sua candida capacità di disattendere gli appuntamenti: «Sono a Fermo e arrivo nel pomeriggio», aveva detto. Ma poteva, alla fine della giornata, telefonare da Parigi, Praga, Roma o essere ancora nelle Marche, soltanto perché aveva incontrato un professore di filosofia, un prete o una bella ragazza che lo ha avvolto e trascinato in un nuovo viaggio, lontano da tutto. Dondero, invece, inaspettatamente, arriva. Tra le mattonelle bianche del Giamaica è a casa sua. Qui, con Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli, Alfa Castaldi, e poi con Uliano Lucas, insieme con scrittori, artisti e giornalisti, si è consumata quella stagione fatta di utopie e disincanti che Luciano Bianciardi ha raccontato nella sua La vita agra. Mario era un protagonista di quell' avventura, o meglio, era già, a suo modo, un mito. Gianni Berengo Gardin confessa che dopo averlo incontrato cercava di imitarlo, nei gesti, nel parlare, addirittura nei vestiti. E per rafforzare la leggenda si sa che è stato Dondero a mettere in mano la prima macchina fotografica a Ugo Mulas dopo un incontro avvenuto per caso su una panchina del parco Venezia a Milano. Tutto normale per un uomo che usa la fotografia come scusa per un irrefrenabile e continuo incontro di umanità, tutto normale per questo ragazzo che proprio non sembra avere 80 anni ma, piuttosto, quattro volte venti. Ed è proprio questo, 4 20 Dondero, il titolo di un libro che un gruppo di amici scrittori, fotografi, giornalisti, artisti, coordinati da Danilo De Marco, gli ha dedicato per celebrare un autore importante, ma soprattutto fare un regalo affettuoso a un caro amico. Quattro volte venti, dunque: per dirla alla francese, come ricorda la figlia Elisa, che vive a Parigi, ma anche come i quattro venti che ti fanno volare in giro per il mondo. Un amico gli fa festa e lo abbraccia: «Come va, Mario, ti trovo un po' stanco». E lui: «Sai, la situazione politica internazionale mi preoccupa un po' ...». Dondero è così. Una vita a stupirti. Con dolcezza, ironia ma con la luce della coscienza civile sempre accesa. Una vita in bianco e nero, la sua. Da sempre una vita fuori dagli schemi, un vedere la fotografia, e anche la vita, da irregolare. Lo è stato quando, poco più che ragazzino, raggiunse i partigiani della Val d' Ossola, lo è stato sempre anche nelle redazioni dei giornali. E lo è tutt' ora. Da vagabondo, periferico, sognatore. «Che cosa significa per me questa irregolarità? Non ho mai visto la fotografia come occasione per fare carriera, ho solo perseguito i miei sogni. Sono una molla sospesa nello spazio». Dondero beve un calice di vino bianco, si guarda intorno, poi continua: «La fotografia come una missione etica? Certo, ho cercato di essere meno volgare, aggressivo e frivolo possibile. Credo nelle fotografie che sono contributi al conoscere, a capire la realtà». Ma non è vero. Dondero è un fotografo che cambia la realtà. Lo è sempre, a tavola con amici quando canta mirabilmente La vie en rose, e lo è stato anche quando con uno scatto, ha «creato» un movimento letterario come il Nouveau Roman. «Effettivamente, salvo in rari casi, i fotografi non modificano le situazioni - dice sorridendo -. Quella foto ha avuto un grosso impatto sull' esistenza del movimento letterario. Inseguivo gli scrittori uno per uno, così ho suggerito all' editore di riunirli per dare testimonianza del movimento. La mia foto gli ha dato una dimensione concreta, solida, palpabile. E poi mi ha permesso di incontrare un personaggio come Samuel Beckett. Mi ha colpito la sua quota di alta umanità, l' assenza totale di boria, la grandissima sensibilità. Ma è stato soprattutto divertente». «Credo sia importante, più che alla forma delle immagini pensare al contenuto - continua Dondero -. C' è oggi una visione egemonica della fotografia, poche agenzie hanno in mano tutto: certo, forniscono una produzione estetica di altissimo livello. Ma è una bellezza estetica che permette di evadere la profondità delle cose. E dove si cerca di introdurre sempre di più un elemento fantastico ed elettronico». Il vecchio leone della fotografia continua a guardarsi in giro, poi, si sofferma alle foto di Mulas alle pareti: «Che ricordi luminosi. Ma non ho nessuna nostalgia di un giornalismo del passato. Tutte le generazioni hanno una quota di persone in gamba e altre meno. Una quota di persone generose e altre aride. Oggi, quello che è cambiato è che una volta tutto era più artigianale, con decisioni rapide. Ora non è più così. Soprattutto si è perso un certo entusiasmo». La calda voce di Dondero ha un effetto quasi avvolgente regalando come una sospensione del tempo: «Mi viene in mente il bellissimo libro dello scrittore finlandese Arto Paasilinna, L' anno della lepre: racconta di un giornalista e di un fotografo che sono diventati completamente cinici. I due stanno tornando da un reportage e sono in viaggio verso Helsinki. Al volante c' è il fotografo che urta qualcosa in mezzo alla strada. Il giornalista scende e trova un leprotto. Soppesa questo piccolo animale tra le mani, lo guarda e i suoi pensieri cominciano a correre, poi lentamente si incammina scomparendo nel bosco. Comincia così l' anno della lepre. Dove il protagonista si reinventa una vita distaccata dalla carriera, dal denaro, una vita più libera. Allora, se tu arrivi a questo livello di sclerosi è meglio tirar giù la saracinesca e cambiare vita». Poi, guardando con un sorriso sornione: «Ma io, francamente, devo dire che conservo ancora un ardente entusiasmo». * * * Il regalo Un «quaderno» di amici: De Luca, Valli, Lucas 4 20 Dondero è il singolare titolo del libro voluto dagli amici di Mario Dondero ed edito, ma anche sostenuto, dalle Edizioni Forum di Udine e dal Circolo culturale Menocchio. Un piccolo, curatissimo e prezioso libro di 200 pagine e in vendita a 15 euro, con testi, tra gli altri, di Erri De Luca, Bernardo Valli, Corrado Stajano, Danilo De Marco, Uliano Lucas, Vladimiro Settimelli, Attilio Giordano, Antonio Gnoli, Elisabetta Rasy... ma anche nomi meno conosciuti come Angelo Ferracuti, il postino di Fermo dove Dondero vive da 10 anni. E poi disegni di Altan, Vauro, Bucchi, Pericoli, Guarino... assieme ad una trentina di fotografie scattate a Dondero da Danilo De Marco.

Colin Gianluigi

Corriere della Sera, 05_05_2008

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Mario Dondero
Compleanno da fotografare
Danilo De Marco

Mario Dondero è uno dei fondatori del fotogiornalismo italiano, una delle ultimissime memorie storiche di questi nostri 60 anni di politica e cultura, ma anche cantore della vita della gente. Per chi lo incontra senza conoscere la sua data di nascita, per l'energia che sprigiona potrebbe sembrare un ragazzo, solo un po' in là con l'età. Poi, quando comincia a raccontare da esperto istrione che conosce l'arte della fascinazione e della cattura, si scopre che arriva da lontano.
Partigiano ancora giovanissimo nella Brigata Cesare Battisti nell'aprile del '45 scende dai monti e decide che la sua strada dovrà essere quella del giornalismo. Comincia a fare cronaca, anche quella nera, ma intuisce subito che per essere incisivi nel raccontare mancava qualcosa. Quel qualcosa era la macchina fotografica. Si accampa a Milano condividendo uno spazio, ma anche un solo paio di scarpe buone, con Ugo Mulas. Se la sera uno dei due doveva uscire per qualche occasione mondana, l'altro era costretto a restare in casa. È così che i due diventano i protagonisti del libro di Luciano Bianciardi La vita agra. Da veri scapigliati non poche volte sono stati costretti a sacrificare, momentaneamente, la macchina fotografica al Monte dei Pegni e con quel denaro portare a sviluppare in tutta fretta le fotografie per consegnarle in tempo ai giornali. Poi, ricevuto il pagamento, di corsa a recuperare il prezioso oggetto. Assieme frequentano il Giamaica, mitico bar di Brera dove più volte troveranno chi li aiuterà a «sfamarsi». A quei tempi, al Giamaica, si davano appuntamento gli artisti, gli scrittori, i giornalisti e i fotografi più importanti della Milano degli anni '50. Da Piero Manzoni a Camilla Cederna, da Alfa Castaldi a Enrico Castellani, per citarne solo alcuni. Sarà proprio Dondero a convincere Mulas a scattare le prime fotografie, ancora prima di diventare lui stesso fotografo. Mulas divenne nel giro di pochi anni il fotografo di successo che tutti conosciamo, mentre il suo «maestro», Dondero, rimarrà ai margini della nascente notorietà modaiola. «Per me fotografare - dice Dondero - non è mai stato l'interesse principale, a me sono sempre interessate le relazioni umane. Le persone mi interessano perché esistono e non solo per il piacere di fotografarle». Dondero lascia le parole scritte e comincia a raccontare con le fotografie quando entra nella rivista di fotogiornalismo Le ore. Poi con Il politecnico di Vittorini, con Il mondo di Pannunzio, con L'illustrazione italiana. Nel 1954 si trasferisce a Parigi e inizia a collaborare con Le monde, Le nouvel observateur, Jeune Afrique. Parigi diventerà la città amata da dove partirà per i suoi viaggi per i quarant'anni che verranno. Fotografa a modo suo Samuel Beckett e tutto il gruppo degli scrittori di quella che poi fu chiamata la corrente del Nouveau roman. Senza quella fotografia, secondo Alain Robbe-Grillet, non ci sarebbe stato il Nouveau roman. Poi Althusser, Francis Bacon... Accompagna Pasolini sulla scena durante i suoi film e lo fotografa in casa con la madre. Vola nel Vietnam in guerra e nella Grecia della dittatura militare. Al processo Panagulis viene arrestato. A Cuba è di casa. Se arrivi in un villaggio dell'Africa nera, non ti devi sorprendere se qualcuno notando la macchina fotografica che porti sul braccio ti si avvicina e ti chiede, sorridendo, se per caso conosci un certo Mario Dondero. Dove passa lascia il segno. E il suo segno è quello dell'uomo che fa sentire a suo agio chiunque, impegnando il suo simile in una impresa che oggi potrebbe sembrare ardua: quella semplicemente dell'essere al mondo. È l'essenzialità, l'umiltà dell'incontro: la sua grandezza è questa. Dondero è un agitatore instancabile di umanità. Ho sempre pensato a Dondero come al Doganiere Rousseau della fotografia, il celebre ora, ma in vita dimenticato, pittore francese ingenuamente colto. Nelle sue fotografie gli orizzonti sono obliqui, sbilenchi, come potrebbe fotografarli un bambino o dipingerli uno dei pittori «primitivi» di Lionello Venturi. Se il Doganiere Rousseau fu «un allegorico costruttore di miti primordiali» e non un pittore naïf, nella libera semplicità/sostanza della fotografia di Dondero, ritroviamo quello spessore conoscitivo che lo ho fatto diventare e lo fa essere cantore di un'epopea del quotidiano. Un cantore, e Mario lo sa, non deve e non può affinare solamente la tecnica per diventare così un abile artigiano che pur sapendo tutto del mondo finge di non conoscerlo e passa all'incasso. Ecco perché Mario, al di là di brevissime collaborazioni, non ha mai cercato l'indirizzo di un gallerista o di un'agenzia fotografica per preparare la sua carriera e la sicurezza economica. Un cantore è anche sognatore, e un sognatore, che per di più in questo caso è anche un viaggiatore dotato di tante mappe umane, esplora tutto instancabilmente, per ritrovarsi poi sempre al punto di partenza. Mi pare chiaro quindi che in tempi di marketing sfrenato dove non c'è posto per il mistero dell'idea, ma solo preoccupazione di passare all'incasso, per molti mediatori-manager dell'immagine fotografica, produttori instancabili di libri e riciclaggio di grandi mostre, le fotografie di Dondero fanno sorridere. Sono foto «sbagliate». Seguaci di una cultura aziendale che pensa solo a rendimenti rapidi e sicuri, come se piazzare fotografie fosse vendere calzini o mutande, incapaci di ascoltare il mondo, non sono in grado di capire che Dondero non scatta solo una fotografia, come quando dal finestrino del treno fotografa un tramonto...Non assiepa, come dice lui, gli amici appena conosciuti in una brasserie di Montmartre perché vuole fare tante belle foto...Non ferma una persona per strada solo perché qualcosa di quella persona lo ha incuriosito... Non scatta una foto all'esterno della sede del Genoa club nei quatieri popolari di Genova perché ne è tifoso. Certo, anche tutto questo: ma prima ancora lui fissa con la macchina fotografica una sua visione della natura, della vita, del mondo. Dondero il mondo lo vede così. O meglio: lo vorrebbe così. Il suo sguardo riordina il visibile attraverso l'esperienza umana. Con un'irriducibile necessità di fratellanza, eredità sicura della sua giovanissima lotta partigiana. E da quell'esperienza non solo mai dimenticata, ma portata con sé fino a oggi, esperienza rinverdita continuamente dal vigore quotidiano e dalla parola affabulatoria, è scaturita un'essenziale e necessaria forma poetica di resistenza. Ecco allora che la sua vecchia macchina fotografica, troppe volte ricomperata perché donata al primo che gli stava simpatico, diventa solo il medium per poetare. Si tratta di svelare quella che Kant chiamava «arte nascosta» nelle pieghe più profonde dell'animo umano. Si tratta semplicemente di fotografare l'utile certezza della nostra fragilità. Anche per questo le sue fotografie non vanno solo viste ma ascoltate, quasi toccate, come lui ama fare quando parla con qualcuno, afferrandolo insistentemente con forza e tenerezza all'altezza del gomito. Mentre la sua voce suadente e pastosa agita lo spirito e seduce il corpo e i suoi racconti si srotolano rassicuranti, scopriamo che le cose dell'esistenza sono sempre lì, pronte a sorprenderci e ci accorgiamo che qualsiasi dettaglio, improvvisamente, può cambiarci la vita. Con Dondero a fianco è come rivivere una proiezione dei primissimi film muti, che avevano necessità dell'accompagnamento di buona musica per «rendere il visibile», impregnando l'atmosfera d'incanto e seduzione. Dondero insiste nel co-stringerci a guardare di nuovo il mondo e a abitare lo spazio della vita dell'uomo nella sua essenziale semplicità: l'arte come forma di vita.
È di questa avventura umana, di questa «sostanza della verità» a cui ci si può avvicinare cercando di essere «leali, franchi e generosi», che con la sua fotografia ha sempre voluto parlarci. Eccolo Mario, sulla soglia, ancora oggi che compie 80 anni, all'improvviso e inaspettato come piace a lui. E come accade all'angelo necessario di W. Stevens pare dire: «Sono uno come voi, e ciò che sono e so/per me come per voi è la stessa cosa». Perché per Mario solo la poesia può rappresentare le contraddizioni senza risolverle concettualmente, perché solo dietro le cose così come sono c'è la potenzialità di un'altra realtà, che preme per venire alla luce.

Il Manifesto, 06_Maggio_2008

Fotoreporter, sognatore e artista. Un libro racconta Mario Dondero e i suoi splendidi ottant'anni.
Mario Dondero per una foto inventa un movimento. Parola di Alain Robbe-Grillet. Chiamasi “Nouveau Roman”: Parigi 1959. I nomi? Robbe-Grillet stesso, Samuel Beckett, Nathalie Serraute, Claude Simon e altri. Dondero che diventa fotoreporter nel ’52 quando in Italia nasce la televisione mentre Cappelli e Trevisani fondano il giornale fotografico Le Ore con un pensiero: «Una foto vale più di mille parole». Dondero che gira il globo e incontra l’umanità.Mario Dondero (milanese di origini genovesi), “classe” 1928, come si direbbe in Friuli, ha compiuto 80 anni il 6 maggio ed è ancora l’uomo che fece dire a Gianni Berengo Gardin: «L’ho conosciuto, voglio imitarlo. Anche nei vestiti». E’ raro che in Italia, da vivente, un uomo che merita sia quasi leggenda. Una bella lezione per tutti. Ed è allora, con una punta di orgoglio, che si è contenti di 4 20 Dondero, libro uscito in terra friulana da pochi giorni per la Forum Editrice di Udine (200 pagine, 15,00 euro) grazie a Danilo De Marco, fotografo, amico ed estimatore di Dondero, al Circolo culturale Menocchio di Montereale Valcellina, a Norma Zamparo, direttore editoriale, ma soprattutto a tutti gli amici del giovane ottantenne, come Erri De Luca, Elisabetta Rasy, Francesco Tullio Altan, Bernardo Valli, Corrado Stajano, Uliano Lucas e tanti tanti altri che gli dedicano i propri pensieri.Fotoreporter, sognatore, artista? Per Dondero tutto funziona, anche se i titoli si sprecano e si regalano. Così ci piace ricordare come lo definisce Gianluigi Colin, art director del Corriere della Sera: «Incredibile incantatore di umanità». Tutto ciò lo fa con la sua presenza generosa, la verve, la semplice coscienza civile (da partigiano?) nel guardare il mondo. E quindi il suo occhio sulle cose. Trasversale. Irregolare. Un amico un giorno mi ha fatto notare che nel dopo-guerra chi fotografava era fortunato. Non esisteva il kitsch. Tutto era fotogenico, e molto del tutto era poetico. Concordiamo. Nel caso di Dondero esisteva la solita questione: si trovava al posto giusto nel momento giusto. E c’erano gli amici, intellettuali importanti, come al Bar Giamaica, a Milano. A esempio Ugo Mulas: è stato Dondero stesso a mettergli la macchina in mano sulla panchina dei giardini di Corso Venezia. Ed è diventato più famoso di lui dentro il successo.C’era al Giamaica l’indomabile signora “buon costume” Camilla Cederna. E poi Piero Manzoni, l’artista. E ancora Luciano Bianciardi. Chi non ha letto La Vita Agra alzi la mano. Anche perché i protagonisti sono proprio Dondero e Mulas. Danilo De Marco racconta che la loro vita agra era condensata anche in un unico paio di scarpe buone per uscire nel mondo, che usavano a turno. Arriva la malinconia perché queste persone, capaci di incidere sulla realtà, non ci sono più. O perlomeno le vai tu a stanare. E quando le trovi sono ancora loro le migliori. Anziani charmantissimi con l’occhio giovane e il pensiero sottile, come Gillo Dorfles, guarda caso triestino (mente aperta?). E si può aggiungere che non ci sono più fotoreporter in grado di cambiare la realtà. Non perché non siano bravi e non la denuncino (citiamo, su tutti, Fabrizio Gatti, Premio Terzani 2008), ma perché il loro documento attesta un mondo complicato, difficilmente recuperabile per la vastità temporale del problema.Non c’è niente di nuovo e di memorabile? Forse sì se parliamo anche di un movimento intellettuale e d’avanguardia vissuto all’aperto e in maniera generosa. Di un gruppo di giornalisti affiatati che se la raccontano. Di semplici incontri al bar dove scambiare il pensiero. Né qui, in presunta periferia, né a Milano, dove anche l’originale Le Trottoir in Corso Garibaldi si è trasformato in un banale ristorante di risotti alla milanese precotti a uso turisti inglesi, il fumo vocale del migliore Andrea G. Pinketts disperso, e i pensatori allegri ricevono in casa, magari il giovedì.Così ci fa piacere che il raffinato libretto 4 20 Dondero, inteso come quattro volte venti anni e quattro venti nell’aria del giro terrestre, ma, soprattutto, dedica alla vita e alla testimonianza sociale di Mario Dondero, sia arrivato qui e da qui parta. In Friuli Venezia Giulia c’è ancora una nascosta ed elevata qualità artigianale nel fare le cose, e prova ne è la casa editrice Forum che, piano piano, con notabile qualità anche grafica, trova titoli impegnativi culturalmente, con piena e corrisposta fiducia di autori e panorama letterario di contorno, come in questo caso, nell’eccellente coordinamento e cura di Danilo De Marco.In questo brillante e affettuoso regalo per “il” Dondero c’è anche un’altra verità da concedere alla storia. A leggere tutti i contributi, anche quello della figlia Elisa, ne esce un ritratto di una vita distratta. Assolutamente. E apparentemente deconcentrata. E a osservare il risultato poetico vien da dire che non bisogna avere paura. A perdersi. L’apparente dispersività fa bene all’arte se dietro all’obiettivo c’è chi lascia questo: «Le persone mi interessano perché esistono».
Elena Commessatti

Mario Dondero e Pasolini: un racconto per immagini.
Palau «Fotografare non è mai stato il mio interesse principale, ancora oggi non mi reputo un fotografo tout court. A me le immagini interessano come collante delle relazioni umane, come testimonianza di situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono». La filosofia di un maestro del fotogiornalismo come Mario Dondero, classe 1928, genovese e cittadino del mondo secondo la miglior tradizione dei suoi natali, se vogliamo è in queste poche battute citate nel programma di «Isole che parlano», il festival di musica e cultura che si svolge sino a domenica. Dondero aveva promesso agli organizzatori Paolo e Nanni Angeli che avrebbe mandato le foto per tempo e che sarebbe arrivato per l’inaugurazione della mostra dedicata al suo amico PPP, Scatti per Pasolini, ma da settimane era introvabile. Dicono che sia nel suo stile, sparire per giorni o mesi addirittura, ma anche che è sempre di parola e, dunque, arriva puntuale al momento giusto. E infatti, giovedì, il grande fotografo è giunto in zona Cesarini, poche ore prima della vernice, con le foto in valigia.
Dondero è un uomo dall’aria e i modi eleganti, l’accento milanese (la sua seconda o terza città, assieme a Parigi) di una volta, il tono pacato. Ha un naso importante e occhi chiari che ti scrutano come un 35 millimetri, e basta stargli accanto anche pochi istanti per capire quanto davvero la fotografia sia la sua vita. Mentre andiamo verso il traghetto che lo riporta a Maddalena dal suo ospite Tatiano Maiore, un altro fotografo che ha girato il mondo, si ferma per riprendere l’insegna sbiadita di un negozio, poi la nave Pace che ormeggia mentre due ragazzi si baciano sul molo. Poesia scampata al turismo di massa in questa parte di Sardegna che conserva ancora, miracolosamente, un po’ della bellezza originaria.
La poesia è il tema della mostra aperta sino al 30 settembre nel museo etnografico, nel senso che Pier Paolo Pasolini è l’oggetto delle quaranta foto dell’esposizione, realizzata lo scorso anno assieme a un libro in occasione del trentennale della morte. «Mi definiscono un fotografo letterario - dice Dondero - perché ho ripreso poeti e scrittori, come nella famosa foto dei francesi del gruppo Nouveau roman, o lo stesso Pier Paolo». Mostra ai presenti le immagini di Pasolini e per ognuna c’è un ricordo, un aneddoto. Poi, di fronte a un pubblico conquistato dal suo eloquio ironico e profondo insieme, tira fuori una cartella e mostra altre immagini della sua lunga carriera. C’è il maggio ’68 a Parigi, dove ha vissuto per quarant’anni, Jean Seberg, Francis Bacon. E a proposito: «Vedete che quell’uomo sullo sfondo? Era una ladro sorpreso dal pittore inglese nella sua casa. Lui gli disse: non ti denuncio, ma adesso resti qui. Diventò il suo amante per quindici anni. Uno strano caso di schiavizzazione sessuale». Poi mostra le foto scattate a Kabul per il calendario 2005 di Emergency, e quasi si commuove. E una di Giuliana Sgrena, la giornalista del manifesto rapita e poi liberata in Iraq. «Di questa sono molto orgoglioso, perche è stata utilizzata come simbolo della campagna per la sua liberazione. E’ stata stampata anche sulle magliette, e vedere quell’immagine sul pancione di una donna nera incinta è stata una delle più belle emozioni della mia vita». Continua: «Un mio amico di Milano, don Gallo, dice che odio così tanto le ingiustizie che dovrei farmi prete». Conoscendo la sua filosofia di vita, la sottile ironia, fa piacere pensare che al sacerdote Dondero risponda con Groucho Marx, e cioé che non farebbe mai parte di un club disposto ad accogliere tra i suoi iscritti persone come lui. Invece replica: «E tu dovresti fare il Papa. Solo, non so se un Papa-Gallo godrebbe di molta credibilità». Grande humor, insomma, ma anche una costante capacità di indignazione, un modo di guardare la vita che negli ultimi anni sembra caduto in prescrizione, sepolto da un condono tombale. Forse dai tempi della stessa morte di Pasolini.
- Come nasce la mostra?
«È nata da un invito del Comune di Falconara Marittima a raccogliere in un libro e appunto in una una mostra le foto che avevo scattato a Pier Paolo nei primi anni Sessanta, quando era da poco arrivato a Roma. Sono stato un suo grande amico, con lui ho frequentato un giro di persone splendide, come Moravia, che era amabilissimo, mentre la voce pubblica lo dava come scostante. Poi Goffredo Parise, Laura Betti, e tanti altri».
- C’è anche un’immagine di Pasolini con una giovanissima Dacia Maraini.
«Era una ragazza di una bellezza incredibile, come avrà notato. Poi c’è Orson Welles, e varie foto di scena del film La ricotta. Penso che Pasolini sia stato il regista più colto del cinema italiano».
- Che ricordo ha di lui?
«Era una persona austera, un uomo molto serio, di grande rigore, con una capacità di indignarsi molto forte. È stato il motore di tutta la mia carica di indignazione: anche se a prima vista posso apparire un uomo divertente e conciliante, in realtà non lo sono per niente, perchè trovo che le tragedie del mondo sono immense e dovremmo reagire. Una delle esperienze più intense della mia vita è stata con Emergency a Kabul: sono venuto via con il cuore straziato, perché è un paese ucciso e massacrato. Per inciso, sono contro la presenza militare di qualsiasi genere, perché tanto i contrasti tra sciiti e sunniti durano da tempi immemorabili. La presenza italiana in Libano è ovviamente diversa, positiva, però io sono per il ritorno al soldato di leva per azioni umanitarie e contro l’armata di mestiere, che considero un pericolo per la democrazia».
- Nel reportage ha riversato la sua vocazione a indignarsi...
«Una vocazione che è quella della zanzara, perché il fotografo è un singolo individuo, un vaso di coccio tra vasi di ferro. Va in giro da solo, come anche molti giornalisti. Mi viene in mente Giuliana Sgrena, una coraggiosissima, una giornalista esemplare».
- Cosa pensa dell’informazione oggi in Italia?
«Trovo elementi di speranza nella gioventù che fa giornalismo. Penso a Fabrizio Gatti che si è buttato in mare al largo di Lampedusa e ha finto di essere curdo per vedere cosa succede nei centri d’accoglienza per immigrati. O a Rainews 24, Report della Gabanelli. C’è poi un mio amico di gioventù che considero molto coerente, Corrado Staiano, un esempio di rigore morale. Ma ci sono tanti fotografi e cronisti poco noti, spesso in provincia, che lavorano con dignità e coraggio. Da ragazzo facevo il cronista di nera, a Milano Sera. Quella è una scuola di umanità, come dice il polacco Kapuscinski, un maestro di giornalismo. Per me è stato un referente al pari di Pasolini pur nella loro diversità. Appartiene alla stessa categoria di grandi cittadini, di uomini che amano gli altri, che vogliono bene alla Terra, insomma. Lui dice che un buon giornalista non può essere cinico, ma deve conservare spazi di umanità, addirittura di ingenuità».
- Lei ha fotografato anche molti artisti: famosa per esempio una sua immagine di Schifano e Festa.
«Molto foto nascono essenzialmente dalle mie frequentazioni personali, perchè generalmente nella scelta dei soggetti vado per simpatita o per stima. Sono contro la specializzazione, ma per uno sguardo poliedrico. Non ho fatto solo foto, ma anche radio, documentari. Credo in tutti gli strumenti possibili».
- Tra le foto che ha mostrato all’inaugurazione, ce n’era una di un giovanissimo Gunther Grass. E lo ha difeso sulla polemica scatenata sulle rivelazioni del suo passato da SS.
«Vede, io sono stato partigiano, e quando ho scelto di diventarlo aveva un anno meno, cioé sedici, di quanti ne aveva Grass quando fu coptato nelle SS, come lo fu di fatto Papa Ratzinger. Conosco Grass dai tempi del Tamburo di latta, lo ritengo un grande esempio di cittadino tedesco, per quello che ha fatto e scritto. E so, per analogia con quello che sono stati i ragazzi di Salò, che tra loro c’erano dei fascisti sanguinari, ma anche degli adolescenti che non sapevano dove andavano».
- Lei però ha fatto un’altra scelta. Un po’ come il suo amico e collega Pablo Volta, partigiano anche lui a sedici anni.
«A questo proposito suggerisco a tutti quanti vogliono conoscere quel periodo il libro di Angelo Del Boca che si chiama appunto La scelta. Chiarisce il dilemma drammatico nel quale si trovava la gioventù. Io ho fatto il partigiano nella divisione Piave, nella brigata Cesare Battisti. Non dico di aver fatto l’eroe, ma ho rischiato pesantemente, anche di finire in un campo di concentramento. Su incarico del mio comandante, avevo nascosto le armi della mia brigata, perché si pensava che se mi avessero catturato, non essendo ancora in età di leva, ed ero l’unico tra noi, avrei corso meno rischi. Fui preso, ma grazie a un paracadutista della Nembo non fui ammazzato. Era un mio vicino di casa... Fatto prigioniero, un giorno saltai addosso a un tedesco che insultava un anziano contadino. Arrivò un sergente della Folgore e, anziché picchiare me, massacrò di botte il tedesco. A quell’uomo devo la vita, perché poi mi fece scappare. Era una sardo che abitava a Reggio Emilia, si chiamava Ugo Fadda. Dopo la guerrà l’ho cercato, senza mai trovarlo. Poi sono entrato nella Garibaldi e ho partecipato alla liberazione di Milano».
- Dov’era quando morì Pasolini?
«Ero a Parigi, ebbi la notizia assieme a un gruppo di amici. Ricordo che fui tramortito dalla notizia. E ancora oggi mi chiedo perché sia accaduto, e quanto di immenso abbiamo perso con la sua scomparsa».
Paolo Merlini

A Su Pelatu "Noarte, adelante".
Si inaugurano questa sera alle ore 19, presso le sale di Su Palatu a Villanova Monteleone le mostre fotografiche personali di Mario Dondero (Italia), Attila Kleb (Ungheria), Bernd Arnold (Germania), György Stalter e Judit Horváth (Ungheria), Gianluigi Colin (Italia) e Danilo De Marco (Italia). La scelta curatoriale dei fotografi è di Pinuccio Sciola. L’esposizione multipla, come recita il titolo «Noarte. Adelante», è il prolungamento di una parte dei lavori fotografici ospitati a San Sperate in occasione dell’ultima edizione di Noarte, nel mese di ottobre scorso. La brevità del tempo di esposizione e la qualità dei lavori fotografici ha convinto gli organizzatori dello spazio di Su Palatu di riproporre la rassegna e dare così la possibilità ad un più vasto pubblico di poter ammirare le immagini dei fotografi europei.
Il numero e la diversità degli autori presenti rende l’appuntamento una ghiotta occasione per vedere immagini di grande qualità formale e dallo stile variegato. Mario Dondero (Milano, 1928) presenta un lavoro del 2004, «Emergency in Afghanistan»; Attila Kleb (Budapest, Ungheria, 1965) presenta un lavoro del 2005, «Burma»; il fotoreporter Bernd Arnold (Colonia, Germania 1961) presenta «Power and Ritual», una selezione di lavori del periodo 1986-2004; i coniugi György Stalter e Judit Horváth (Ungheria) «Un altro mondo», progetto sulle popolazioni gitane; Gianluigi Colin (Pordenone, 1956) opere su base fotografica «I bambini di Roman» (Roman Vishniac, fotografo russo, autore delle foto di bambini ebrei) e Danilo De Marco (Udine, 1959) presenta «Bambini», una selezione di immagini raccolte in diverse parti del mondo.
L’inaugurazione delle sei mostre fotografiche sarà preceduta questa sera dagli interventi che saranno tenuti dal sindaco di Villanova Monteleone Sebastiano Monti e quello di San Sperate. Antonio Paulis, del direttore artistico della rassegna «Noarte», lo scultore e artista Pinuccio Sciola, del presidente di «Noarte» Paolo Lusci, del responsabile dello spazio espositivo de Su Palatu, Salvatore Ligios e della co-curatrice di Sa Domo Manna di Villanova Monteleone Sonia Borsato.
L’esposizione fotografica potrà essere visitata tutti i giorni a partire dalle ore 16 alle 20 (lunedì lo spazio espositivo resterà chiuso) e rimarrà aperta sino al 27 gennaio 2008. L’ingresso è gratuito. Catalogo in mostra a cura della Soter editrice. L’esposizione è organizzata in collaborazione con “Noarte», Associazione culturale di San Sperate, il Comune di San Sperate, la Regione Autonoma della Sardegna, Palacomposita service integrato e la Soter editrice. Per informazioni: Su Palatu tel. 079-961005. Cellulare: 334 651 6050. E-mail: info@supalatu.it

Gli occhi di Dondero.
di DANILO DE MARCO Uno dei protagonisti di Messico, l’ombelico della Luna è Mario Dondero, uno dei fondatori del fotogiornalismo italiano, una delle ultimissime memorie storiche di questi nostri ultimi 60 anni di politica e cultura, ma anche un cantore della vita della gente. Per chi lo incontra senza conoscere la sua data di nascita, vista l’energia che sprigiona, potrebbe sembrare un ragazzo solo un po’ in là con l’età. Poi, quando comincia a raccontare, da esperto istrione che conosce l’arte della fascinazione e della cattura, si scopre che arriva da lontano.
Partigiano ancora giovanissimo nella Brigata Cesare Battisti, nell’aprile del ’45 scende dai monti e decide che la sua strada dovrà essere quella del giornalismo. Comincia a fare cronaca, anche quella nera, ma intuisce subito che per essere più incisivi nel raccontare, manca qualcosa. Quel qualcosa è la macchina fotografica.
Si accampa a Milano condividendo uno spazio, ma anche un solo paio di scarpe buone, con Ugo Mulas. Così, se la sera uno dei due doveva uscire per qualche occasione mondana, l’altro era costretto a restare in casa. I due diventano i protagonisti del libro di Luciano Bianciardi La vita agra. Da veri scapigliati, non poche volte sono costretti a sacrificare, momentaneamente, la macchina fotografica al monte dei pegni per portare a sviluppare le fotografie e consegnarle in tempo ai giornali. Poi, ricevuto il pagamento, di corsa a recuperare il prezioso oggetto.
Assieme frequentano il Giamaica, mitico bar di Brera dove più volte trovano chi li aiuta a sfamarsi. Al Giamaica si davano appuntamento tutti gli artisti e i giornalisti, da Piero Manzoni a Camilla Cederna, per citarne solo due, gli scrittori e i fotografi della Milano degli inizi anni ’50.
Ed è proprio Dondero a convincere Mulas a scattare le prime fotografie, ancora prima di diventare lui stesso fotografo. Mulas diventa in pochi anni il fotografo di successo che tutti conosciamo, mentre il suo “maestro”, Dondero, rimane ai margini della nascente notorietà modaiola. «Per me fotografare – dice Dondero – non è mai stato l’interesse principale; a me sono sempre interessate le relazioni umane. Le persone mi interessano perchè esistono e non solo per il piacere di fotografarle».
Dondero lascia la parola scritta e comincia a raccontare con le fotografie quando entra nella rivista di fotogiornalismo Le Ore. Poi lavora con il Politecnico di Vittorini, Il Mondo di Pannunzio, L’Illustrazione Italiana. Nel 1954 si trasferisce a Parigi, dove collabora con Le Monde e Le Nouvel Observateur, e da lì partirà per i suoi viaggi per i quarant’anni successivi. Fotografa a modo suo Samuel Becket e tutto il gruppo degli scrittori che lo attorniano: poi Althusser e Francis Bacon. Accompagna Pasolini sulla scena durante i suoi film e lo fotografa in casa con la madre. Vola nel Vietnam in guerra e nella Grecia della dittatura militare. Al processo Panagulis è arrestato. A Cuba è di casa. Se arrivi in un villaggio dell’Africa nera, non ti devi sorprendere se qualcuno notando la macchina fotografica che porti sul braccio ti si avvicina e ti chiede se per caso conosci un certo Mario Dondero. Dove passa lascia il segno.
Il suo segno è quello dell’uomo che fa sentire a suo agio chiunque, impegnando il suo simile in un’impresa che oggi può sembrare ardua: quella semplicemente dell’essere al mondo. È l’essenzialità, l’umiltà dell’incontro: la sua grandezza è questa. Dondero è un agitatore instancabile di umanità.
Ho sempre pensato a Dondero come al doganiere Rosseau della fotografia, il celebre ora, ma in vita dimenticato, pittore francese ingenuamente colto. Nelle sue fotografie gli orizzonti sono obliqui, sbilenchi, come potrebbe fotografarli un bambino o dipingerli uno dei pittori “primitivi” di Lionello Venturi. Le situazioni umane hanno sempre qualcosa che nelle foto degli altri fotografi non appare, non si sente: lo spessore conoscitivo. Per molti “mediatori” dell’immagine fotografica, produttori instancabili di libri e grandi mostre, le fotografie di Dondero fanno sorridere: sono foto “sbagliate”. Seguaci di una cultura aziendale che pensa solo a rendimenti rapidi e sicuri, incapaci di ascoltare il mondo, non sono in grado di capire che Dondero non scatta solo una fotografia, come quando dal finestrino del treno fotografa un tramonto: non “assiepa”, come dice lui, gli amici appena conosciuti in una brasserie di Montmartre perchè vuole fare tante belle fotografie; non ferma una persona per la strada perchè qualcosa di quella persona lo ha incuriosito; non scatta solo una foto all’esterno della sede del Genoa club nei quartieri popolari di Genova. Si, certamente anche questo: ma prima ancora fissa con la macchina fotografica una sua visione della natura, della vita, del mondo. Dondero il mondo lo vede così. O meglio: lo vorrebbe così. Il suo sguardo riordina il visibile attraverso l’esperienza. La macchina fotografica è solo il medium per poetare. Si tratta di svelare quella che Kant chiamava “arte nascosta”" nelle pieghe più profonde dell’animo.
Per questo le sue fotografie non vanno solo viste ma anche ascoltate, quasi toccate come lui ama fare quando parla con qualcuno, afferrandolo insistentemente con forza e tenerezza all’altezza del gomito. La sua voce suadente e pastosa agita lo spirito e seduce il corpo, e i suoi racconti fanno rivivere le circostanze in cui le foto sono state realizzate. Con Dondero a fianco è come rivivere una proiezione dei primissimi cinema muti, che avevano necessità dell’accompagnamento di una buona musica per “rendere il visibile” e far scorrere l’atmosfera dell’incanto e della seduzione.
Dondero ancora oggi, quasi 80enne, ci invita a guardarci attorno. Cerca di costringerci a guardare di nuovo il mondo e l’uomo nella sua essenziale semplicità: l’arte è vita, dunque ingenuità. Per lui l’essere al mondo è un miracolo, è un incantesimo. Di quell’incanto, di quel miracolo noi beneficiamo. Ed è di questa avventura umana, che con la sua fotografia, Mario Dondero vuole parlarci.


Chi

Dove
Quando
Perchè?

FANOCULTURA






Battagliero e controcorrente, Il Purgatorio dei laici scritto dal fanese Paolo Bonetti è un libro che sfida «i nuovi farisei» del neo-clericalismo, incalzandoli sul campo della ragione, della tolleranza e del buon senso. «La Chiesa cominci a chiedere perdono anche agli omosessuali». «Inaccettabile che tante persone siano discriminate sul piano dei diritti civili, perché l'autorità religiosa non approva la loro condotta sessuale».
Se ne parlerà con il presidente nazionale di Arcigay, Franco Grillini, stasera alle 21 nei locali della Libreria del teatro, a Fano in via Montevecchio. Il giornalista Enzo Marzo inquadra così, nella prefazione, il cuore dell'opera: «Sentendosi mordere i talloni dalla modernità, il clericalismo accende i toni, si aggrappa a ciò che considera la parte più forte del suo pensiero, diventa sempre più intollerante e attaccato al potere. Si occupa sempre più di politica e sempre meno di fede. Ma con grande astuzia». Bonetti ha appena sciolto ogni residuo legame con Cassino, dove ha insegnato Filosofia morale per anni. Il ritorno in pianta stabile nella sua Fano lo rende «entusiasta all'idea di rinnovare la stagione delle grandi lotte per i diritti civili». Il suo “Purgatorio” è giudicato dallo stesso Marzo «un'opera attualissima», perché la «nuova ondata integralista», che «risale agli ultimi due pontefici», si propone «con modalità sempre uguali». Dei grandi dibattiti anni Settanta-Ottanta (aborto, divorzio) Bonetti ha resuscitato a Fano uno strumento culturale distintosi a quei tempi: il circolo “Antonio Labriola”, che organizza assieme all'associazione “La scala segreta” l'incontro con Grillini. Già consigliere del presidente Giovanni Spadolini, il professore fanese ha sempre avuto una passione per la politica. Personalità piuttosto spiccata, di lui si ricordano strappi rumorosi: il più recente dalla Fondazione Teatro. Castiga i laici in “Purgatorio” per il peccato di eccessiva arrendevolezza (sui temi della scuola pubblica, delle famiglie di fatto, dei temi etici legati alla scienza) a chi vuole imporre per legge dello Stato «comportamenti e stili di vita ispirata alla propria particolare morale o fede religiosa». Ma rilanciare il pensiero della sinistra liberale è una prospettiva che oggi sembra ancora più ardua, dopo la nascita del Pd. Bonetti gli chiede uno sforzo di «identità culturale»: per ora «di progressivo ha soltanto la paralisi».
Osvaldo Scatassi, Il Messaggero, 18_06_08
Opere sullo sfondo, moccoli in primo piano mettono in scena il futuro di Fano. Fuor di metafora: l'occasione è propizia per la campagna elettorale che da adesso e da qui inizia.

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Laboratori in mostra' oggi e domani nella sala di Santa Maria Nova, a Fano in via da Serravalle. Orario 10-12 e 16.30-19.30. Si tratta dei manufatti realizzati durante le attività dell'Università dei Saperi 'Grimaldi'. Cerimonia inaugurale alle 17." Il Messaggero, 07_05_08



Uomini, Idee, Artefatti e Luoghi della Cultura nella Città della Fortuna.

Il Messaggero
Venerdì 28 Marzo 2008
FANO
Si preannuncia come la grande festa dell'associazionismo fanese, vera energia positiva della città: "Fan(n)o Cultura", iniziativa in programma il 29 e 30 marzo al Teatro della Fortuna, organizzata dalla Consulta delle associazioni culturali del Comune, con l'assessorato alla Cultura e la Fondazione Teatro della Fortuna, presenta una vetrina per promuovere al pubblico il ricco patrimonio di idee, conoscenze e proposte che permea il tessuto sociale cittadino. Il programma della due giorni è stato illustrato dal presidente della Consulta, Saul Salucci e dal sindaco e assessore alla Cultura Stefano Aguzzi, "felice di un'iniziativa che riconosce alle associazioni il giusto merito per l'intensa attività portata avanti durante tutto l'anno". Una quarantina le associazioni (quelle che aderiscono alla Consulta sono 67) impegnate a vario titolo nell'evento, articolato fra l'allestimento di piccoli spazi espositivi (sabato e domenica nei foyer del teatro e della sala Verdi); la partecipazione al forum delle associazioni (domenica alle 16 in Sala Verdi) e l'organizzazione di momenti culturali, conferenze, intrattenimenti, concerti e rappresentazioni teatrali (sabato e domenica fra sala Verdi e teatro). Tra questi spicca quello organizzato dalla Fanum Fortunae e dedicato al lavoro artistico e culturale svolto a Fano da Luciano Pavarotti. Sabato alle 10 è in programma l'apertura degli spazi espositivi e il convegno del Soroptimist "Fano pulita comincia da me-La parola ai ragazzi". Alle 16,30 la cerimonia con i saluti del sindaco e, a seguire, l'incontro organizzato dal circolo culturale Bianchini "La Birmania tra cultura e dittatura", con la relazione del professor Peris Persi, scampato per miracolo nel gennaio scorso ad un tragico incidente ad El Alamein, in Egitto, dove persero la vita due donne italiane. Alle 18,30 La Scala Segreta e I Fanigiulesi presentano "Anima Femina-I personaggi femminili nella Divina Commedia"; alle 20,30 "Reportage Chernobyl" con Roberta Biagiarelli e, alle 22, le "Danze Polovesiane" con Anna Caterina Cornacchini e il Coro lirico Mezio Agostini. Altri spettacoli sono in programma nella giornata di domenica. Biglietti gratuiti da ritirare presso il botteghino del teatro.
M.G.

Chiosa:

Dopo i bagordi, gli intellettuali si fan sordi, mentre la compagnia mercanteggia il valore di una scoreggia: è sempre pronto l' Assessore a cambiarsi di colore (continua).

PROSA DEL MESE IN SALSA FANESE (Aprile_2008)